Testimoni: Santi Martiri di Abitene (12 Febbraio)



Santi Martiri di Abitene (12 Febbraio)
«Saturnino.. i suoi quattro figli, cioè Saturnino il giovane e Felice.. Maria e Ilarione.. Dativo, o Sanatore, Felice; un altro Felice, Emerito e Ampelio.. Rogaziano, Quinto, Massimiano o Massimo, Telica o Tazelita, un altro Rogaziano, Rogato, Gennaro, Cassiano, Vittoriano, Vincenzo, Ceciliano, Restituta, Prima, Eva, ancora un altro Rogaziano, Givalio, Rogato, Pomponia, Seconda, Gennara, Saturnina, Martino, Clauto, Felice il giovane, Margherita, Maggiore, Onorata, Regiola, Vittorino, Pelusio, Fausto, Daciano, Matrona, Cecilia, Vittoria.. Berettina, Seconda, Matrona, (e) Gennara».

Perché questa gigantesca sfilza di nomi, ma soprattutto: chi sono costoro?
Ce lo dice il Martirologio Romano, lo stesso “librone” da cui li abbiamo tratti, che precisa: «A Cartagine, commemorazione dei santi martiri di Abitene, in Tunisia: durante la persecuzione dell’imperatore Diocleziano, essendosi come di consueto radunati contro il divieto imperiale di celebrare l’Eucaristia domenicale, furono arrestati dai magistrati della colonia e dal presidio militare; condotti a Cartagine – oggi un sobborgo marino di Tunisi, ndr – e interrogati dal proconsole Anulino, anche tra le torture tutti si professarono cristiani, dichiarando di non poter tralasciare la celebrazione del sacrificio del Signore; per questo versarono in diversi luoghi e tempi il loro beatissimo sangue».

Dunque, furono uccisi perché si ribellarono a chi voleva impedire loro di celebrare la Messa domenicale?
Esattamente. Questi 49 cristiani di Abitene o Abitina, antica città della provincia romana situata nell’attuale Tunisia, nel 304 furono giustiziati per non aver rinunciato a professare loro fede. Mentre regnava Diocleziano vennero accusati di avere celebrato illegalmente il culto eucaristico domenicale, il 24 febbraio dell’anno precedente l’imperatore lo aveva infatti proibito. A dire il vero, il vescovo Fundano era stato ossequioso al dettame, ma diversi “laici” continuarono a celebrare illegalmente sotto la presidenza di Saturnino, il primo della lunga lista citata. Arrestati e condotti davanti ai magistrati locali, furono inviati a Cartagine, al tempo capitale della provincia, al fine di essere processati. Così il 12 febbraio il senatore Dativo professò apertamente la sua fede, dichiarando senza mezzi termini di aver preso parte alle celebrazioni incriminate e, pur sotto tortura, si rifiutò di fare il nome di chi le aveva presiedute. 

Quale sorte toccò al già citato Saturnino? 
Anch’egli interrogato, non abiurò la sua fede nemmeno sotto tortura. Ma la cosa più bella fu la testimonianza che dette agli altri – partendo dai suoi quattro figli – , i quali seguirono il suo esempio. Se furono costretti a parlare tanto, la frase per cui questi 49 “eroi” sono così celebri è tuttavia la seguente: «Sine dominico non possumus»! A dirla fu Emerito, al quale fu chiesto perché avesse disobbedito all’ordine dell’Imperatore: «Senza celebrare il giorno del Signore non possiamo vivere». 

Che incredibile testimonianza! Eppure oggi ci appare talmente lontana..
Il gesuita Cesare Giraudo apre così il primo capitolo del suo bellissimo ed evocativo testo intitolato Stupore eucaristico: «La messa è indubbiamente il rito basilare del cristianesimo, tanto che senza.. non si dà comunità cristiana. Ne erano ben convinti i quarantanove martiri di Abitene.. (che) confessarono candidamente: “Senza quel rito che si identifica con la domenica noi non possiamo stare, giacché come cristiani non esisteremmo neppure”». Lo stesso liturgista prosegue andandoci giù tutt’altro che per il sottile: «Ci si potrebbe domandare: molti abusi che si riscontrano a livello celebrativo, non derivano forse da una presentazione dell’Eucaristia in dimensione esclusivamente conviviale? Inoltre, una certa riduzione statico-devozionale dell’Eucaristia non ha forse finito per oscurare la sua imprescindibile dimensione dinamica, trinitaria, pneumatologica, ecclesiologica? Ancora: l’abitudine diffusa a vivere l’Eucaristia come esperienza di fede privata, non ha forse incentivato una scollatura tra il momento celebrativo e le implicazioni etiche che ne derivano a livello tanto individuale quanto comunitario?». E conclude: «L’Eucaristia è un dono troppo grande – ammonisce il Pontefice (sta parlando di san Giovanni Paolo II, che così si esprime nell’enciclica Ecclesia de Eucharistia, ndr) – , per sopportare ambiguità e diminuzioni». 

Tuttavia oggi è davvero complicato celebrare comunitariamente, sganciati da quell’opportunismo che ti fa calcolare orari, distanze e, non da ultimo, l’appeal del prete di turno..
Il cardinale francese Jean-Marie Lustiger, al tempo arcivescovo di Parigi, affermava in proposito: «Temo che molti oggi – siamo nell’ormai lontano 1988 – siano sfasati nel loro comportamento religioso dall’abitudine del “self-service” e dalla comodità del “supermercato” o dei centri commerciali. Soprattutto.. dove le chiese sono numerose.. (ma) i “praticanti” non sono una “clientela”, né la messa è una “prestazione” modificabile al gusto delle indicazioni del “marketing”».   

Ad essere sinceri.. a cosa serve andare a messa?
Questa è la cinquantesima ed ultima domanda che si pone il presbitero di Strasburgo Michel Wackenheim nel libro intitolato appunto La messa in 50 domande. E risponde: «“Non serve a niente!”, come non serve a niente abbracciare i propri genitori, il proprio marito o la propria moglie.. la messa ci fa entrare in una dimensione d’amore.. noi mangiamo Cristo per divenire a nostra volta Cristo in mezzo ai nostri fratelli». «Noi non andiamo a messa – ribadisce questa volta Lustiger – per soddisfare la nostra sensibilità religiosa, né perché il tal giorno e alla tale ora ne abbiamo voglia o bisogno. Noi partecipiamo alla messa la domenica.. perché il Signore Gesù ci convoca, lo Spirito Santo ci raduna e Dio nostro Padre ci ha donati come discepoli al Figlio suo».

Parole meravigliose e “sacrosante”, ma bastano agli uomini e alle donne di oggi? Insomma, La messa è finita, per dirla col titolo del celebre film di Nanni Moretti?
Lasciamo rispondere al fondatore della comunità di Bose Enzo Bianchi, il quale ritiene che le fatiche celebrative attuali abbiano diverse cause: «innanzitutto perché la fede si è fatta debole, e poi perché, anche a causa della pandemia, il popolo si è assentato dalla liturgia. Una liturgia virtuale non è liturgia cristiana! ..Nelle relazioni d’amore tra esseri umani i corpi non sono accessori, e così nella relazione che è alleanza, comunione, inabitazione reciproca tra Dio e il suo popolo, e tra i membri stessi di questo corpo che è l’“Ecclesia”». E aggiunge: «se ci chiediamo perché abbiamo sopportato questa patologia liturgica, allora forse dobbiamo confessare che le nostre messe trasmesse in video avevano preso il posto di quelle in presenza, alle quali i fedeli “assistevano” come a uno spettacolo.. In modo accelerato abbiamo scoperto ciò che, in realtà, prima della pandemia non volevamo vedere: la diminutio in atto della comunità ecclesiale, perché per molti le liturgie sono diventate irrilevanti, non dicono più nulla, sono afone di parole significative, e per alcuni ormai anche incomprensibili». 

Quindi il primo passo da fare è quello di interrogarci seriamente sul futuro dell’Eucaristia..
Certo, ma a partire dal presente. «Oggi più che mai – è ancora Bianchi a parlare – i cristiani chiedono che la liturgia sia viva di parole, segni, azioni umanissime. Ciò che era straordinario in Gesù era la sua umanità, e nella liturgia devono apparire le sue azioni, le sue parole..». Se i presbiteri hanno talvolta contribuito a generare questa situazione – da quelli che eccedono in protagonismo a coloro che seguono «pedissequamente il Messale come un copione, senza mai chiedersi cosa dice, come lo dice e a chi lo dice!» – è pur vero che il problema è più complesso.

Cos’è possibile fare allora?  
Lasciamoci aiutare ancora una volta dal priore, secondo cui le piste praticabili sono tre, a partire dall’accoglienza di una certa pluralità di celebrazioni, là dove la pluralità è considerata una ricchezza. Chiediamoci: non è forse così in ogni ambito della vita? Pluralità, ancora, che va a braccetto con una certa creatività, sapiente e intelligente: «in Francia, Belgio, Germania.. – fa notare Bianchi – si compongono orazioni e anche prefazi che sono capolavori di teologia e di spiritualità liturgica!». La seconda strada da battere è poi fare in modo di bandire il clericalismo: «Oggi, quasi in tutte le comunità, sembra che la liturgia eucaristica preveda un attore in presbiterio, dietro l’altare e all’ambone, e il popolo nella navata. Tutto il rito avviene in un faccia a faccia inspiegabile, perché anche quando chi presiede dovrebbe stare, come i fedeli, rivolto verso il Signore (vedi: atto penitenziale e diverse collette) resta invece rivolto verso i fedeli. Lo spazio che si delinea è quello dello spettacolo, vero incitamento al protagonismo clericale dove il presbitero è sempre al centro!». Chiaro che, stando così le cose, l’immaginario collettivo percepisce che a celebrare l’Eucaristia sia unicamente il prete.. 

Occorrerebbe, forse, ascoltare anche chi vive dall’esterno queste dinamiche..
Senza dubbio, altro che forse! Tuona infatti Bianchi: «Possibile che nessuno ascolti cosa dicono i ragazzi non praticanti quando capitano per caso a una delle nostre liturgie?». Quanto alla terza pista da percorrere, ritiene sia quella di «aprire cantieri di lavoro» per formulare nuove preghiere più aderenti sia al Vangelo sia all’attuale modo di vivere. E questo senza dimenticare l’abc del celebrare, a partire dalla cura dello spazio e del tempo. Anzitutto: le nostre attuali chiese edificio, sono adatte ad una celebrazione che sia davvero comunitaria? In seconda battuta: è possibile dare qualità a più messe giornaliere? Ci sia permessa la banalità dell’esempio, ma i cappelletti, per dirla alla romagnola, non sono forse così buoni perché li mangiamo “solo la domenica”?

«Vi chiediamo di intercedere per noi, cari martiri di Abitene: continuate a pregare affinché il nostro desiderio di celebrare insieme il miracolo della vita, sia tale da farci nuovamente dire: “senza ringraziare non possiamo più vivere”».

 

Recita
Patrizia Sensoli, Cristian Messina

Musica di sottofondo
E.Savino, Ali di riserva

 

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