
Testo della biografia
Non vi spaventate, ho detto “buongiorno” in arabo perché questa è la lingua che si parla oggi nel paese dove sono nata io, il Sudan, lo stato con capitale Khartoum, la città dove morì San Daniele Comboni. Io sono Santa Bahita, la pronuncia esatta è proprio questa, Bahita, che significa “fortunata”. Sono nata nel Darfur, quando era ancora un regno a sé stante. Darfur significa “territorio dell’etnia fur”.
Forse nel 1869, forse nel villaggio che si chiamava Olgos, da bambina mi hanno rapita e lo shock fu così grande che dimenticai tante cose, persino il mio nome. Bahita è il nome che mi hanno dato i miei rapitori. Sarà dura per voi ascoltare le mie immense sofferenze, non le potreste nemmeno immaginare. Un esempio dei vostri tempi? I lager nazisti del secolo scorso, e in anni più vicini, i campi di detenzione in Libia. Chi arriva da lì mi capisce perché passa attraverso torture pazzesche: sete, fame, frustate, caldo del deserto, mancanza di cure, malattie non curate, trattati come bestie. Questi migranti capiscono me, io capisco loro, e sapete perché? Perché noi siamo passati attraverso una delle più tremende esperienze: la schiavitù e la tratta degli schiavi.
Una terribile piaga mondiale che dilaga anche in questo terzo millennio. Non per niente oggi, proprio oggi, l’8 febbraio, nella mia festa liturgica, Papa Francesco ha voluto che si celebrasse una giornata speciale, quella di preghiera, riflessione e sensibilizzazione contro la tratta, la moderna tratta, che colpisce i più fragili: dai bambini alle donne. Io, bambina e donna, ne so qualcosa.
Lasciatemi dire che, se mi scappa qualche frase in dialetto veneto, mi perdonerete. Dal Sudan sono arrivata in Italia, ho vissuto in Veneto e sono morta a Schio, una cittadina in provincia di Vicenza. Quante volte mi hanno sentito dire queste frasi:
• “Quello che vuole il paròn,”
• “Quanto bon che ch’è il paròn,”
• “Come se famo voler che venga il paròn.”
Questo “paròn” per me era Dio, il buon Dio, il padrone migliore che io abbia mai avuto, e di padroni ne ho avuti tanti, perché mi hanno venduta varie volte. Eppure vi dico che, se incontrassi quei negrieri che mi hanno rapita e anche quelli che mi hanno torturata, mi inginocchierei a baciare le loro mani perché, se non fosse accaduto ciò, non sarei ora cristiana e religiosa. Così ho scritto nel mio diario, ma ora dovrei aggiungere: “Non sarei santa.”
Vi ho già detto che mi hanno rapita, ma non si trattava certo di un rapimento a scopo di estorsione. Non ero certo la figlia di un sultano. Da molti anni, le popolazioni arabe facevano incursioni nei nostri villaggi e rapivano bambini, donne, uomini e giovani. Ho un ricordo terribile: forse avevo cinque o sei anni, ero con un’amichetta a raccogliere delle erbe per cucinare, quando due uomini mi trascinarono via e mi chiusero in una capanna.
Per tutta la notte ho pianto e sperato che mia mamma e mio papà venissero a liberarmi. Invece, giorni dopo, sono stata costretta a marciare, insieme ad altri bambini, in una lunga fila di uomini e donne, che per non scappare avevano un collare di ferro al collo. I negrieri ci minacciavano e colpivano continuamente con lunghe fruste. Dovevamo camminare sotto il sole cocente, per giorni e giorni. I giovani e gli adulti portavano anche grossi pesi in carovana. Eravamo diretti a un grande mercato degli schiavi, dove saremmo stati venduti. Anch’io sono stata venduta, anch’io sono stata schiava.
Oggi, se potessi tornare sulla terra, girerei tutte le scuole per spiegare cosa è stata la schiavitù di ieri e cos’è quella di oggi. E vi direi: “State attenti, sono troppi i segnali del razzismo dilagante, e la tratta, con le sue nuove forme di schiavitù, frutta miliardi di dollari.” Andrei in giro con un
Ma torniamo alla mia vita. A Khartoum sono stata comprata da un generale turco. Ho patito sofferenze inenarrabili quando mi hanno sottoposto al rito crudelissimo delle cicatrici indelebili. Non potrete trattenere le lacrime. Io l’ho scritto nel mio diario:
“Viene il mio turno. Non avevo fiato di muovermi, ma uno sguardo alla padrona e allo scudiscio alzato mi fecero piegare immediatamente a terra. Quella donna, avendo ordine di risparmiarmi la faccia, comincia a farmi sei tagli sul petto e poi sul ventre, fino a sessanta, e sul braccio destro quarantotto. Come mi sentissi non lo potrei dire. Mi pareva di morire a ogni momento, specie quando mi stropicciò con il sale. Immersa in un lago di sangue, fui portata sul giaciglio, dove per più ore non seppi più nulla di me. Quando rinvenni, mi vidi accanto le mie compagne, che al par di me soffrivano atrocemente. Per più di un mese tutte e tre fummo condannate a stare lì, distese sulla stuoia, senza poterci muovere, senza una pezzuola con cui asciugare l’acqua che continuamente usciva dalle piaghe semi aperte per il sale. Le cicatrici mi durano ancora. Posso proprio dire che non sono morta per un miracolo del Signore, che mi destinava a migliori cose.”
So che tutti vi state chiedendo: “Ma come sei arrivata in Italia, in Veneto, a Schio?” Perché il Signore si è servito del console italiano a Khartoum, Callisto Legnani. Quando il generale turco ha voluto vendermi, questo signore italiano mi ha comprato, riscattato, e così per me è cominciata una vita più serena. Vivevo nella sua casa e lavoravo come domestica, ma quando il signor Legnani, nel 1884, dovette tornare in Italia, mi portò con sé e poi mi offrì alla signora Maria Turina, moglie di un suo amico veneziano, Augusto Michieli.
Con questi nuovi padroni andai a vivere vicino a Mirano Veneto. Ero la babysitter di Mimmina, la loro figlia bellissima di circa tre anni, che mi era veramente affezionata. Poi tornammo tutti in Sudan, a Swakin, dove i Michieli gestivano un albergo. Erano decisi a rimanervi definitivamente, ma la signora Turina doveva rientrare in Italia per vendere le proprietà di famiglia e quindi voleva che sua figlia ed io l’accompagnassimo. Nel 1885 conobbi il signor Checchini, che lavorava per i Michieli. Fu lui a condurmi alla fede cristiana.
La mia padrona, dovendo raggiungere il marito in Sudan, mi lasciò in Italia con Mimmina, nell’istituto gestito dalle suore Canossiane a Venezia. Qui il signor Checchini mi fece dono di un piccolo crocifisso d’argento, che baciò prima di darmelo. Io non sapevo cosa fosse, ma ricordo che, nascostamente, lo guardavo e sentivo una cosa in me che non sapevo spiegare. Così ho cominciato a conoscere Gesù. Poi madre Maria Fabretti mi spiegò tutta la sua vita e la sua morte in croce. Oh, quanto desideravo diventare cristiana anch’io!
Ma i problemi non erano finiti. Nel 1889, la mia padrona tornò in Italia e voleva a tutti i costi che io andassi con lei in Sudan, ma io ero decisa a restare in Italia per ricevere il battesimo. La mia padrona si infuriò, mi minacciò, e persino il procuratore del Re le rispose così: “Trovandosi in Italia, dove non si fa mercato di schiavi, la giovane Bahita resta libera.” Così, ho potuto ricevere il battesimo il 9 gennaio 1890. Pensate, mi hanno dato tre nomi: Giuseppina, Margherita e Fortunata. Nello stesso giorno ricevetti anche la Prima Comunione e la Cresima.
Rimasi altri due anni nell'istituto e lì ho maturato la vocazione religiosa tra le suore canossiane. Dopo gli anni di formazione, nel 1902 mi hanno mandata nel convento di Schio dove ho fatto la cuoca, la sacrestana e la portinaia. Lasciate che ve lo dica in dialetto: mi son un povero gnocco, come gai fatto a tenermi in convento, son buona da niente e quando la gente mi compativa per la mia storia dicevo: poareta mi, mi non son poareta perché son del paron e nella sua casa, quei che non c'è del paron, i c'è poareti. Tutti mi conoscevano e mi chiamavano madre moretta per il colore scuro della mia pelle. Tutti volevano vedermi, son proprio una bestia rara.
Poi scoppiò la seconda guerra mondiale e io mi ammalai. L'8 febbraio 1947 lascio questo mondo per andare dal me paron in cielo, ma potete venire a trovarmi a Schio. Papa Giovanni Paolo II mi ha proclamata beata nel 1992 e poi santa nel 2000. Pensate, sono stata schiava, ho provato l'inferno in terra, ma Dio mi ha salvata e amata così tanto e io, dopo le terribili sofferenze nella mia giovinezza e proprio nel quotidiano, cucinando, pulendo, aprendo la porta e accogliendo tutti con bontà, che sono diventata santa.
Testo scritto e interpretato da
Paola Vismara
Musica di sottofondo
Stefano Rocchetta