"Dopo tre giorni". (La Bibbia secondo Hermann Melville)



Testo della catechesi
«Il primo giorno della settimana», quello che i cristiani inizieranno a chiamare domenica, “giorno del Signore”, è il terzo – stando al computo ebraico, che calcola anche il giorno del decesso e quello della risurrezione – da quando Gesù è morto; tre sono dunque i giorni che il Figlio di Dio trascorre nel sepolcro; tre, come quelli in cui il profeta Giona rimane nel ventre del grande pesce; tre, come quelli dopo i quali, avendo camminato nella pancia della balena, Pinocchio incontra il padre Geppetto; due, però, sono i giorni che l’unico superstite del romanzo di Moby Dick deve attendere prima di essere salvato..

Perché questi accostamenti? Perché anche quest’ultima opera attinge a piene mani dal testo sacro. Vediamolo, partendo proprio dal suo autore: figlio di Maria Gansevoort e del ricco commerciante Allan Melville, Herman nasce a New York il 1º agosto 1819. Undici anni dopo il padre ebbe un tracollo finanziario, iniziando ad avvertire i primi sintomi di una malattia psichica che lo porterà alla morte, fatto che segnerà il piccolo in modo indelebile. La madre e i suoi otto orfani, tra fratelli e sorelle, si trasferirono quindi sulle rive dell’Hudson. Dopo aver lasciato definitivamente la scuola, il giovane si cimentò in vari lavoretti prima di scegliere di fare l’insegnante, eppure la sua anima non era in pace, ragion per cui nel giugno del 1839 si imbarcò come mozzo sulla St. Lawrence, nave che lo avrebbe portato dalla “grande mela” a Liverpool. Dieci anni dopo pubblicò Redburn: il suo primo viaggio – ispirato proprio a questa traversata – , lasso di tempo in cui successe tanto: nel ’47 sposò Elisabeth Shaw, con la quale ebbe quattro figli, due maschi (entrambi morti in giovane età, uno dei quali suicida) e due femmine. Nel frattempo, però, fece altre esperienze simili alla prima traversata: nel 1841 si imbarcò dal porto di New Bedford, nel Massachussetts, sulla baleniera Acushnet, diciotto mesi in mezzo all’Oceano Pacifico che daranno vita con ogni probabilità al suo capolavoro, quel Moby Dick che, inizialmente poco considerato, vide la luce nel 1850 in una fattoria nel frattempo acquistata da Melville, in cui restò per tredici anni, periodo durante il quale tornò in Inghilterra e visitò la Palestina, dedicandosi anche all’arte, pur senza successo. Salpò da questa vita il 28 settembre 1891 e venne sepolto nel Bronx.  

Tornando al capolavoro della letteratura americana, di cui la critica iniziò a interessarsi solo nel centenario della nascita del suo autore, di cosa parla esattamente? Se tre dei suoi libri (Typee, Omoo e Giacchetta bianca) sono evidentemente autobiografici, Moby Dick lo è indirettamente. Ne La biblioteca dell’anima la traduttrice ed editor Anna Maria Foli ha commentato quelli che ritiene non solo i cento libri più belli di sempre, ma addirittura capaci di salvarci. Tra di essi non poteva ovviamente mancare Moby Dick, che il poliedrico francese Jacques Attali – come riporta lei stessa – inserisce tra i dieci romanzi da leggere assolutamente prima di morire. La Foli considera il romanzo di Melville «una storia al contrario: dalla ricchezza alla miseria, dalla fama all’anonimato.. (poiché l’autore morirà) nella completa indifferenza dei suoi concittadini». Secondo lei si tratta forse del libro più capace di far scendere il lettore «negli abissi della propria interiorità umana e coglierne luci e ombre.. una riflessione sull’ossessione del male e sul duro combattimento dell’essere umano per trovare un senso e una direzione alla propria vita, anche e soprattutto a partire dalle sconfitte».   

Lo scrittore, poeta e traduttore Cesare Pavese (1908-1950), che nel 1941 ne ha curato la traduzione italiana, dice che Moby Dick è addirittura “costruito” sulla Bibbia, al punto che le sue citazioni, che ne fanno una sorta di poema sacro, vanno dal genesiaco «E Dio creò grandi balene» all’epilogo di Giobbe: «E io solo sono scampato a raccontarvela». Ma ogni singola parte del libro è intrisa di pagine bibliche, a partire dalla nota tecnica dei “nomi parlanti”: «Chiamatemi Ismaele», letteralmente “Dio ascolta”, è così che inizia infatti il romanzo, col nome del marinaio e voce narrante, mutuato da quello del figlio di Abramo, avuto dalla schiava Agar, nonché futuro capostipite delle tribù arabe, citato più volte nel Corano come esempio di rettitudine e profeta di Dio; quindi Giona, “colomba”, quinto tra i dodici profeti cosiddetti “minori”; poi Elia, “mio Dio è JHWH”, profeta che operò sotto il re Achab nel IX secolo a.C., nome, quest’ultimo, del capitano della baleniera; non manca inoltre uno dei tre amici “bigotti” di Giobbe, Bildàd; infine Rachele, traducibile con “pecora, agnello”, la moglie prediletta di Giacobbe. 

Ma il legame tra il capolavoro di Melville e la Sacra Scrittura non si esaurisce qui, trattando ad esempio il mistero del male, veicolato attraverso l’antagonismo tra Achab e la Balena. Che dire poi della simbologia dell’acqua, presente nella Bibbia quanto in Moby Dick? Rappresenta anzitutto un elemento ambivalente: da un lato la vita, dato che dall’acqua – il liquido amniotico – noi in fondo proveniamo, dall’altro può far morire. Simboleggia inoltre la purificazione ed è segno di benedizione, mentre nei Profeti lo straripamento dei fiumi simboleggia la potenza devastatrice degli imperi che sommergono i piccoli popoli. Non solo, richiama all’importante rito del lavaggio dei piedi all’ospite ed è simbolo escatologico: la Gerusalemme celeste ha una fonte perenne che dice il ritorno alla felicità paradisiaca. Nel Nuovo Testamento ecco il rito battesimale: se Giovanni immergeva “per la remissione dei peccati”, facendolo nel Giordano (stesso fiume che in passato aveva purificato Naaman il Siro dalla lebbra), Paolo vi aggiungerà un ulteriore significato, sostenendo che l’immersione del neofita rimanda alla sua morte-sepoltura con Cristo e relativa riemersione-risurrezione con Lui. Comunicandoci lo Spirito, infine, il battesimo è anche principio di vita nuova.  

Vada per l’acqua, ma qual è nello specifico il ruolo del mare nella Bibbia, teatro in cui ha luogo l’intera narrazione melvilliana? La Scrittura attinge dalle mitologie circostanti, in primis da quella mesopotamica, che personifica il mare con una bestia mostruosa, il dragone Tiamat (il caos), immagine delle potenze devastatrici che Marduk, il dio dell’ordine (in greco cosmos), doveva ridurre all’impotenza. Parimenti la mitologia siriana di Ugarit opponeva il dio del mare Jam a Baal (“Signore”), in una lotta per la sovranità del mondo divino. Nella Bibbia, tuttavia, il mare è ridotto a semplice creatura: nel racconto di creazione ecco che JHWH divide in due le acque dell’abisso (tehom) come faceva Marduk per il corpo di Tiamat.

Piccola parentesi: non è proprio in quanto “creatura” che l’acqua, ovvero i mari, i fiumi, i laghi, ecc.., andrebbe oggi più che mai protetta e tutelata?  

Tornando alla simbologia del mare, essa rappresenta un pericolo: i fondali – che stanno “di sotto” come l’infernus! – erano considerati vicini allo sheol, l’ebraico regno dei morti, simbolo dunque delle potenze avverse, ragion per cui ad esempio la traversata del Mar Rosso diventa la vittoria sul dragone del grande abisso.  Nel Secondo Testamento il mare rimane luogo diabolico, sul quale però Gesù trionfa: camminandoci sopra (cfr. Mc 6,49ss; Gv 6,19ss) o calmandolo (Mc 4,39ss). Non è un caso, allora, che l’intera Bibbia si concluda descrivendo la nuova creazione come quel giorno in cui «non ci sarà più il mare», stando al capitolo 21 dell’Apocalisse.   

Il mare è dunque un simbolo biblico potentissimo, e come tale possiamo guardarlo o come una semplice superficie piatta d’acqua, o come qualcos’altro, rimandando – per via dell’orizzonte – a ciò che gli sta oltre. Come per la Bibbia, anche in Moby Dick il mare è un simbolo decisivo: «È l’immagine del fantasma inafferrabile della vita; e questo – scrive Melville – è la chiave di tutto».

La balena invece, cosa rappresenta nel romanzo? 

Occorre anzitutto fare alcuni passi indietro, tornando al Leviatano, quella creatura mostruosa  presente in diversi contesti culturali, tradotta in ebraico con “contorto, malvagio, avvolto”. Nel Primo Testamento è citato nei Salmi, nel libro di Giobbe e in quello di Isaia, ma mai con questo nome. Nato dal volere di Dio, «è il re su tutte le bestie più superbe» (Gb 40,25-32;41,1-26), nonché associato a Babilonia (Is 27,1). Se la cosiddetta versione Settanta della Bibbia (l’Antico Testamento scritto in lingua greca) traduce Leviatano con Drakon, “drago”, ecco che per Tommaso d’Aquino rappresenta il demone dell’invidia, mentre dal 1651 – anno in cui il filosofo inglese Thomas Hobbes pubblica la sua opera più famosa con questo nome – si tenderà ad identificare col termine Leviatano tutto ciò che rimanda al potere. Esattamente duecento anni dopo il nostro Herman premetterà al suo grande romanzo diverse pagine per definire la balena bianca, considerando le diverse etimologie e le opere in cui viene citata. Nelle primissime pagine del capitolo iniziale, intitolato Miraggi, Melvillle pone una domanda ben precisa al lettore: «Perché gli antichi Persiani tenevano il mare per sacro? Perché i Greci gli fissarono un dio a parte, e fratello di Giove? Certamente tutto ciò non è senza significato. E ancora più profondo di significato è quel racconto di Narciso.. Ma quella stessa immagine noi la vediamo in tutti i fiumi e negli oceani. Essa è l’immagine dell’ineffabile fantasma della vita; e questo è la chiave di tutto». E se Ismaele si trova a viaggiare sulla baleniera, è perché ciò faceva «parte del gran programma che la Provvidenza tracciò tanto tempo fa». Nel capitolo terzo, in cui l’autore ci mette in guardia dal timore che nutriamo nei confronti di chiunque sia diverso da noi, si dice non a caso che «L’ignoranza è la madre della paura». Già, occorre conoscere! Quattro capitoli dopo Melville ci introduce nella “Cappella del baleniere”, in cui non si teme di discutere di morte e vita eterna e, «Tutte queste cose – scrive nuovamente – non sono senza significato. Ma la Fede – aggiunge – , come uno sciacallo, si nutre fra le tombe, e persino da questi dubbi mortali raccoglie la sua più viva speranza». Tutto ciò che ci aiuta a capire è allora bene accetto. In tale chiesetta l’autore si concentra quindi sul pulpito, che  «Come la maggior parte dei pulpiti all’antica, questo era molto alto.. l’architetto.. s’era conformato a un suggerimento di padre Mapple e aveva finito il pulpito senza scale, sostituendovene una.. come quelle che usano per salire a bordo d’una nave in alto mare». Pulpito la cui fronte «era fatta a somiglianza di una grossa prora di nave (la prua, ndr) e la Sacra Bibbia poggiava su un pezzo sporgente a voluta, come la testa a serpe di una prora.. Sì, il mondo è una traversata senza viaggio di ritorno, e il pulpito è la prora». Bella immagine! Un pulpito, ancora, dal quale padre Mapple, dopo aver abbondantemente citato Giona, afferma che «se ubbidiamo a Dio.. dobbiamo disubbidire a noi stessi». Il capitolo decimo affronta anche, in modo franco e intelligente, il tema del dialogo interreligioso: «Quiqueg (il pagano).. si sarebbe con gioia fatto uccidere per me, se fosse stato necessario.. Io – dice Ismaele – ero un buon cristiano, nato e cresciuto nel seno dell’infallibile Chiesa Presbiteriana (una “ramificazione”, diciamo così, della Riforma Protestante, ndr). Come potevo dunque unirmi a questo selvaggio idolatra nell’adorazione del suo pezzo di legno? Ma che cos’è adorazione? Pensai. Credi dunque, Ismaele, che il magnanimo Iddio.. possa essere davvero geloso di un insignificante pezzetto di legno? Impossibile! ..Fare la volontà di Dio: questo è adorazione. E che cos’è la volontà di Dio? Fare al mio prossimo ciò che vorrei che il mio prossimo facesse a me.. Ora, Quiqueg è mio prossimo. E che cosa vorrei che questo Quiqueg facesse a me? Associarsi a me, via, nella mia particolare forma di adorazione presbiteriana. Di conseguenza, io devo associarmi con lui nella sua: ergo, devo farmi idolatra». Meraviglioso! Quattro capitoli oltre l’autore non risparmia, da buon calvinista, una critica al diffuso e forse abusato commercio delle reliquie: «a Nantucket – scrive – i pezzi di legno vengono portati in giro come i frammenti di legno della vera croce a Roma». Dopo aver specificato che la maggior parte degli abitanti dell’isola di Nantucket, al largo di Boston, erano quaccheri (ovvero quella Società degli Amici che, nata nel XVII secolo in Inghilterra dal calvinismo puritano, si concentra sul sacerdozio di tutti i credenti), ecco concentrarsi sul tema della vendetta, unico obiettivo del comandante Achab, che si domanda: «Quante botti (sottinteso d’olio, da cui il termine “capodoglio”) frutterà la tua vendetta, posto che tu la raggiunga..?.. Vendetta sopra un bruto che non ha la parola! – esclamò Starbuck – che ti colpì soltanto per il più cieco degli istinti! Follia! Essere infuriato contro una creatura muta, capitano Achab, mi sembra un’empietà.. Per me la Balena Bianca – risponde Achab – è.. (un) muro.. talvolta penso che di là non ci sia nulla. Ma mi basta.. – e aggiunge – io sfogherò su di lei questo mio odio. Non parlarmi d’empietà, marinaio: io colpirei il sole, se mi facesse offesa». Tale vendetta di uno, però, rischia di diventare facilmente vendetta di tutti: «Un mistico, sfrenato sentimento di simpatia era in me – afferma ancora una volta Ismaele – ; l’odio inestinguibile di Achab pareva fatto mio. Con avide orecchie ascoltai la storia del mostro assassino contro il quale io e tutti gli altri avevamo prestato giuramento di violenza e di vendetta». È in gioco quello che l’antropologia chiama mimetismo, fenomeno che, detto in modo un po’ semplicistico, descrive la tendenza umana all’imitazione dell’altro. Bellissima è inoltre la definizione che Melville dà dell’immortalità, della vita eterna: «ubiquità nel tempo», dato che «la Morte è soltanto un salpar per la regione del nuovo Inesplorato». Quanto alla numerologia biblica, l’autore la cavalca attraverso la simbologia del 40: «Oh, Starbuck – dice Achab – ..in un giorno simile.. ho colpito la mia prima balena: ramponiere a diciott’anni! Quaranta, quaranta, quaranta anni fa! Quarant’anni di caccia continua. Quarant’anni di privazioni e di pericoli e di tempeste». Venendo all’epilogo di questo grande romanzo, inizia con una citazione di Giobbe e si conclude con la seconda moglie di Giacobbe: «E io solo sono scampato, a raccontartela» (Gb 1,15).. «Il dramma è finito (la Balena ha vinto).. uno è sopravvissuto alla distruzione.. Il secondo giorno una vela s’avvicinò e finalmente mi raccolse. Era la bordeggiante “Rachele” che, nella sua ricerca dei figli perduti, trovò soltanto un altro orfano».  

Nel suo Teologia per tempi incerti il teologo Brunetto Salvarani apre il capitolo in cui parla di Giona citando il poeta e scrittore partenopeo Erri De Luca: «Difficile essere latitanti, quando si è ricercati da Dio» (Una nuvola come tappeto). Salvarani si chiede anzitutto cosa sia un profeta, ricordandoci che il termine deriva dal greco prophètes, ovvero “colui che parla davanti a”, mentre l’ebraico a navì. Non dunque, contrariamente a quanto pensano i più, qualcuno che predice il futuro, bensì una persona che parla “a nome di qualcun altro”, un messaggero, l’araldo medievale che rappresentava – letteralmente “rendeva presente” – il sovrano o il feudatario. Ma veniamo a Giona, nome ebraico che come detto significa “colomba”, nella Sacra Scrittura simbolo del popolo d’Israele. Pur essendo senz’altro un profeta, prosegue Salvarani, Giona trasmette un contenuto più sapienziale che profetico.. Ovvero? Si tratta prima di tutto di «una finzione letteraria e didattica – in ebraico, un midrash, dal verbo darash che significa cercare, ma anche studiare, sollecitare, investigare». Finzione letteraria, sì, perché per dare una veste storica a questo racconto l’autore biblico l’ambienta nell’ottavo secolo a.C., il periodo che potremmo definire classico della grande profezia d’Israele. Giona, ci fa notare ancora Salvarani, è inoltre l’unico profeta titolare di un libro biblico espressamente citato nel Corano, che nella sura sessantottesima (68,48) lo chiama Yunus o Dhû’n-Nun, Quello del pesce: «Sopporta dunque con pazienza il Giudizio del tuo Signore e non fare come Giona – dice il Corano – , che Ci invocò solo dopo essere stato ingoiato dalla balena». L’accostamento all’essere acquatico è infatti un suo carattere distintivo anche nel mondo islamico, nonostante il pesce sia citato in appena tre dei quarantotto versetti che compongono i quattro capitoli del libro, fatto che per il teologo carpigiano ne fanno un racconto più che un vero libro. Da cosa scappa davvero Giona? Se la sua fuga è teologica, prima che geografica, come mai Gesù, a chi gli chiede un segno – in Matteo come in Luca – , promette soltanto “quello di Giona”? Altro quesito: perché il racconto profetico-sapienziale termina con la domanda – è Dio a parlare a Giona – «E io non dovrei avere pietà di Ninive, quella grande città, nella quale vi sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?». Non contrasta con la vendetta tanto cara a Melville, che la concentra tra l’altro proprio nei confronti dell’animale Moby Dick? Non è forse proprio l’odio dell’unico ebreo in scena, Giona, che il Signore vuole stornare a favore dell’odiata Ninive? Il profeta, lasciamo ancora una volta la parola al teologo, «è uno di noi, che ogni tanto veniamo inghiottiti da un mostro (“un grosso pesce”, dag gadol, per lui..), e ogni tanto troviamo la forza di uscirne rinvenendovi un ventre materno e protettore.. lanciando, come il nostro profeta, una preghiera, un grido d’aiuto, un lamento lancinante.. – e aggiunge – la posta in gioco è il passaggio dalla morte alla vita». Ventre che, nel caso del più celebre “discendente” di Giona, Pinocchio, non è materno ma in qualche modo paterno, dato che nella cavità del cetaceo incontra l’invocato Geppetto.  

Ma è del capolavoro di Melville che ci stiamo occupando.. La politica e giornalista Barbara Spinelli nel 2010 ha pubblicato Moby Dick o l’ossessione del male, un dialogo con la curatrice e conduttrice del celebre programma Uomini e profeti, Gabriella Caramore. Il testo mette chiaramente in luce l’affinità tra l’opera di Melville e la Bibbia, trattando il male e l’orgoglio che attanagliano il cuore umano: «Quel che caratterizza il romanzo Moby Dick, solo in apparenza soltanto la narrazione fantastica di avventure per mare – scrive la Spinelli – , è la ricerca della verità o comunque la tensione verso il vero». La gigantesca balena bianca non sarebbe altro, infatti, che la materializzazione dei dilemmi umani più profondi, su tutti quello del male e il confronto con esso, «l’incontro con il peccato, con la colpa», incontro-scontro che ha come protagonista il capitano Achab, figura sintetica dell’umanità tutta, che «sogna di essere Dio, di creare l’universo o di sfasciarlo». Di cosa tratta dunque Moby Dick, se non della più grande delle tentazioni, quel peccato d’origine che spinge le creature a sostituirsi al Creatore? Che fare allora se, per dirla ancora con la Spinelli, «Il male è dentro e fuori di noi. È combattuto e adorato, così come Achab adora Moby Dick»? A dirla tutta, l’autrice intravede anche altro in questo capolavoro, cioè l’incessante desiderio, da parte della cultura americana, di «avere qualcosa di significativo da cercare e da dire nel mondo». Probabile, ma la nostra attenzione è di altro tipo. 

Quanto ai simboli melvilliani, il primo è – come già sottolineato – di certo il mare, biblicamente multiforme e controverso: «È scendendo nel profondo dell’acqua, nel profondo del Leviatano, che scopri la tua vocazione». Chiediamoci quindi: l’acqua purifica dal male perché è in essa che quest’ultimo si trova? Fuor di metafora, è la vita stessa a purificarci da quel male di cui essa stessa si fa latrice? Il male, forse, non può essere vinto se non affrontandolo..

La giornalista romana si sofferma poi sul colore del cetaceo: «Il bianco, pur essendo una tinta ben determinata, è considerato un non-​colore – nonostante gli studiosi ci dicano tutt’altro – e in quanto tale rappresenta l’indecifrabile, l’ineffabile». Quanto al binomio Giona-Achab, sottolinea quindi come entrambi siano fuggiaschi, preoccupati solo di sottrarsi alla chiamata di Dio.

Un altro rimando biblico sta inoltre nel desiderio di tornare sulla terraferma, quella terra promessa che, rievocando l’Esodo, è più affare di Starbuck che di Achab. Starbuck che, prima ancora di cedere il suo nome alla nota catena mondiale di caffetteria, è il personaggio più cauto, nonché suo primo ufficiale, della baleniera Pequod. Quello di Melville è dunque un pellegrinaggio dell’anima? Diciamolo senza esitazione: sì! La Spinelli, nell’accomunare Achab e Giona, si spinge oltre, e lo fa parlando del personaggio Pip: «una figura magica, che adora Achab pur essendo il suo esatto contrario. È un “piccolo” nero dell’Alabama ed è l’unico personaggio ad essere invaso da un’incontenibile paura della balena bianca, e di qualsiasi balena.. Pip è Giona (e Melville) in versione demente. Ed è un doppio tragico e commovente di Achab». Niente male.. 

Il 5 ottobre del 1944, messo ormai da parte ogni progetto di evasione, Dietrich Bonhoeffer compose una poesia intitolata proprio Giona, in cui, secondo il già citato Salvarani, il celebre teologo luterano si rivede, «nel suo consegnarsi volontariamente all’equipaggio pagano, un’incarnazione del coraggio morale di chi si rassegna alla morte in funzione di una salvezza collettiva, quella del popolo tedesco». La miglior risposta ad ogni tipo di vendetta..

Recita
Cristian Messina

Musica di sottofondo
Libreria suoni di Logic Pro
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